PRODUZIONE ZOLFIFERA DALL’INIZIO DEL XIX ALLA PRIMA META’ DEL XX SECOLO (2° parte)
Secondo una legge istitutiva, tutti i possessori di zolfo erano tenuti a consegnare il minerale al Consorzio, che poteva imporre dei limiti alla produzione. A consegna avvenuta del minerale, esso avrebbe rilasciato in cambio dei titoli girabili rappresentativi della merce ( fedi di deposito ), sui quali il Banco di Sicilia e la Banca Mineraria erano autorizzati ad anticipare l’80% del prezzo presunto di vendita, detto “ prezzo prudenziale “, stabilito annualmente dal governo. Quando lo zolfo veniva venduto, il Consorzio rimborsava le anticipazioni e, detratte le spese, liquidava la differenza del 20% sul prezzo prudenziale, mentre l’eventuale maggior prezzo ricavato, definito “ avanzo di cassa “, veniva pagato a fine esercizio. Il Consorzio veniva amministrato da rappresentanti dei produttori, mentre la nomina e la revoca del direttore generale e la fissazione del prezzo prudenziale erano competenza del governo che, inoltre, poteva annullare la delibera del consiglio di amministrazione e nominare un commissario per l’amministrazione del Consorzio. La scarsezza di capitali, le elevate giacenze, il prevalere della produzione sulle esportazioni, resero difficile l’attività iniziale del Consorzio.
Nel 1909, veniva pubblicata una relazione ministeriale in cui veniva criticato il funzionamento del Consorzio poiché, non esistendo alcun limite alla produzione che, anzi, era stimolata dal forte anticipo concesso sul prezzo prudenziale, il minerale invenduto si sarebbe accumulato in tal misura da mettere in crisi il Consorzio stesso e le banche. Per fronteggiare la concorrenza bisognava diminuire il costo di produzione e stabilire il prezzo prudenziale in rapporto alla produzione dell’anno precedente, affinché i produttori si attenessero alle possibilità che il mercato offriva. Ma in realtà il vero problema era rappresentato dall’elevato costo di produzione. Nel 1905 il metodo Frasch era ormai divenuto economicamente conveniente e gli effetti non tardarono a farsi sentire. Infatti, la Sicilia cominciò a perdere il monopolio a lungo tenuto e la produzione statunitense aumentò rapidamente.
Tra il 1904 ed il 1915 la produzione subì, dunque, un netto ridimensionamento, passando da 496.000 a 322.000 tonnellate, con un calo molto più forte tra le piccole che tra le grandi miniere: il numero delle prime passò da 715, per 121.000 tonnellate di produzione nel 1904, a 240 nel 1915, quello delle seconde da 85 per 374.000 tonnellate a 60 per 274.000. Lo scoppio della prima guerra mondiale salvò la pericolante industria siciliana, infatti le richieste provenienti dalle industrie belliche furono tali da assorbire l’intera produzione mondiale di zolfo. Ma se il conflitto aveva permesso all’industria siciliana d’evitare il tracollo, non aveva potuto modificare i rapporti commerciali esteri a suo favore. L’industria statunitense che, nel 1911, produceva il 28.1% della produzione mondiale raggiunse nel periodo bellico il 77.68%, mentre quella siciliana che, nel 1911, produceva il 51.36% della produzione mondiale scendeva nel 1918 al 11.45%.
La discesa della produzione mineraria fu dovuta a diversi fattori: l’esaurimento di numerose miniere, le difficoltà tecniche per la prosecuzione degli scavi a maggiore profondità, i disastri minerari, gli scioperi e principalmente il richiamo alle armi dei lavoratori e le difficoltà creditizie e di rifornimento di macchinari e combustibili. Infatti quando la mobilitazione industriale venne estesa anche alle zolfare ( aprile 1917 ) esentando i lavoratori dal servizio militare, la produzione cominciò a risalire. Nel luglio del 1918 scadevano i contratti di deposito presso il Consorzio. La maggioranza dei consorziati erano per il rinnovo dell’ente obbligatorio, proprio perché la sua struttura politico-corporativa rappresentava il miglior ostacolo alla conquista dell’industria estrattiva da parte dei raffinatori e degli industriali della Montecatini che controllavano le principali raffinerie e alcune grandi miniere dell’isola. Il mondo dei proprietari dell’interno, così attaccati al loro tradizionale ruolo di indiscussa classe dirigente e quello della grande industria, catanese o addirittura milanese, si rivelavano incompatibili tra di loro. In realtà, grandi mutamenti erano avvenuti nella struttura dell’industria zolfifera. L’avvento della Montecatini si era realizzato in simbiosi con un gruppo catanese, interessato fra l’altro all’attività più propriamente industriale nel campo della raffinazione, che proprio a Catania si era affermata rapidamente, in età giolittiana, facendo vittoriosa concorrenza alle raffinerie straniere.
La scissione tra estrazione e raffinazione del minerale rappresentava una specificità isolana e, certamente, era da attribuirsi alle specifiche condizioni nelle quali l’attività estrattiva si svolgeva nelle arretrate regioni della Sicilia interna. Sin dall’ottocento la raffinazione si era sviluppata nelle città portuali, dove il combustibile poteva più facilmente reperirsi e dove, in generale, un’attività industriale poteva più agevolmente essere sostenuta. Catania, dunque, aveva sempre più concentrato l’attività della raffinazione, in concorrenza anche con i centri di Licata e Porto Empedocle, più vicini ai luoghi di produzione ma meno forniti sul piano delle infrastrutture. I principali esponenti della raffinazione catanese erano: Carlo Sarauw, titolare della “Baller” una delle più antiche ditte di esportazione di zolfi nell’isola, Alfred Trewhella, impegnato nella costruzione delle ferrovie sicule e nella gestione di importanti miniere ( Grottacalda, Stretto-Giordano ), Valdemar Fog e Alfredo Alonzo, che nutrivano sospetti e timori nei confronti del Consorzio.
In realtà, i rapporti tra Consorzio e raffinatori non erano mai stati idilliaci, perché questi ultimi sospettavano che i produttori volessero allargare la normativa consortile al settore della trasformazione; proprio per questo tutti gli esponenti del gruppo catanese diedero vita, nel 1915, alla formazione dell’Unione Raffinerie Siciliane. Anche i produttori, comunque, nutrivano diffidenza nei confronti dei raffinatori, che poi erano gli stessi mercanti contro la cui mediazione si era costituito il Consorzio. Nel 1917 fu indetto tra i Consorziati un referendum per decidere se dovesse essere mantenuto il Consorzio. A maggioranza si decise in tal senso e, con decreto del maggio 1918, la sua durata fu prolungata fino al luglio 1930. Terminata la guerra, nonostante la presenza sul mercato di tre compagnie americane ( Union Sulphur, Freeport Company e Texas Gulf ) le esportazioni siciliane non subirono brusche contrazioni. Questa situazione favorevole non durò a lungo, infatti, non appena i cambi si normalizzarono l’industria siciliana fu esposta alla concorrenza.
Nell’aprile del 1922, il governo indusse il consiglio amministrativo del consorzio a dimettersi e nominò un commissario che, attraverso trattative con le compagnie americane, che si erano associate nel potente cartello “ Sulphur Export Corporation” ( SULEXO ), raggiunse un accordo commerciale firmato a Roma, il 14 marzo del 1923, che stabilì di riservare alla produzione italiana e alla SULEXO i rispettivi mercati nazionali e di ripartire gli altri mercati esteri per il 75% alla SULEXO e per il 25% al Consorzio, che s’impegnava inoltre a vendere 65.000 tonnellate di zolfo a prezzi ridotti per sostenere la concorrenza delle piriti nella fabbricazione dell’acido solforico. Comunque, fino alla fine degli anni ‘20, l’industria zolfifera siciliana conobbe un periodo positivo, grazie al buon andamento dell’economia mondiale e all’ aumentata richiesta del prodotto per usi industriali. Il capovolgersi della congiuntura economica mondiale, dopo la crisi del 1929, fu risentito dall’industria dello zolfo la cui produzione era destinata quasi interamente all’estero.
La diminuzione dei consumi portò alla rottura degli accordi con gli americani, i produttori siciliani chiesero lo scioglimento del consorzio per avere libertà d’azione. Nel 1932, accolte le richieste dei produttori, il consorzio fu posto in liquidazione e l’anno successivo venne istituito “l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano” col compito di vendere per conto dei produttori lo zolfo prodotto. L’Ufficio vendite, comunemente detto ITALZOLFI, non ebbe soltanto la funzione di venditore dello zolfo italiano, ma ricevette anche la facoltà di controllare la produzione mediante una politica di contingentamento ( quota fissa di produzione per ogni miniera ) del minerale tra le varie zolfare, obiettivo che il vecchio Consorzio non aveva mai potuto conseguire.
Il risultato, comunque, fu paradossale, perché ormai il problema della sovrapproduzione, che tanto aveva angustiato l’industria a cavallo tra i due secoli, era talmente lontano che la produzione nazionale raramente poté coprire la fetta di mercato che gli accordi assegnavano ad essa, per l’esaurimento delle maggiori miniere, specialmente nella provincia di Caltanissetta. La politica dei contingentamenti, d’altronde, era inadatta a suscitare nuove energie, perché le zolfare minori e potenzialmente più produttive, non potendo superare il contingente stabilito per esse, non riuscivano ad ammortizzare gli investimenti necessari e finivano per indebitarsi pesantemente. Quindi, la liberalizzazione dopo tanti anni di protezione, si rilevò un vero fallimento. La difficoltà che incontrarono i produttori a collocare lo zolfo nei mercati esteri portò il governo a creare, nel 1940, un nuovo organo competente “ Ente Zolfi Italiani “ che doveva incoraggiare la ricerca di nuovi giacimenti, di nuovi metodi per trattare il minerale e di modi per migliorare le condizioni di vita degli zolfatari. Per rimettere in moto la situazione l’EZI riapriva la polemica sulla pesantezza degli estagli ed emanava nuove più severe norme per la decadenza delle concessioni minerarie, da considerarsi non tanto diritto, quanto dovere nei confronti dello sforzo produttivo nazionale.
Ma il secondo conflitto mondiale stava ormai per scoppiare. La guerra inflisse colpi gravissimi all’industria zolfifera siciliana, la cui produzione toccò il minimo nel 1944 con 32.000 tonnellate contro le 240.000 del 1938, le miniere attive si ridussero da 103 a 75, mentre il numero degli addetti scese a 4.800 zolfatari. Alla fine della guerra gli ormai cronici problemi dell’industria zolfifera, dovettero cedere il passo a quelli più gravi della ricostruzione. Per evitare i danni che col ritorno alla normalizzazione la concorrenza le avrebbe sicuramente apportato, il governo lasciò alla regione l’incarico di risanare il settore, incarico che la regione difficilmente poteva assolvere, perché i problemi dell’industria erano collegati al più generale problema meridionale.
Geologo Alfio Calabrò
Prof.ssa Ermelinda Ciaurella